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Il parlato

di Cristina Lavinio - GISCEL  

9 - Densità (informativa e semantica) minore nel parlato

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A parità di unità di informazioni da trasmettere, nel parlato si usano più parole, meno precise, diluite entro un cumulo di perifrasi, incisi, esitazioni, false partenze, enunciati frammentari, ecc.: da tempo Halliday ha evidenziato tale minore densità semantica del parlato rispetto allo scritto. 

 

Parlando, si usano parole più generiche (non si ha il tempo di cercare quelle più precise) e, se si sente il bisogno di precisare, tale precisazione avviene cammin facendo, in maniera discorsiva, aggiungendo altre parole e, magari, ripetendo o riformulando. Le parole più frequenti, in ogni lingua,  sono anche quelle dal significato più ampio, sono parole-ombrello che possono ricoprire un’infinità di sensi più particolari (si è già fatto l’esempio di parole come cosa, fare, dire). Hanno una minore densità semantica perché il loro significato è definito da pochissimi tratti (es.: per definire dire basta probabilmente indicare che è “l’azione compiuta quando si parla”;  per definire sussurrare bisogna specificare che “è un dire a bassa voce”, aggiungendo dunque almeno un elemento - o tratto di significato - supplementare che precisa il modo in cui si compie l’azione del “dire”) e i tratti di significato presenti in parole generiche sono di numero molto inferiore a quelli necessari per definire il significato di termini tecnici e specialistici.  Le parole più frequenti sono anche quelle che circolano maggiormente in una lingua, che fanno parte del suo vocabolario fondamentale o di base, che si imparano per prime e, anche nell’insegnamento di una lingua straniera, si dovrebbero imparare per prime (proprio perché più facilmente spendibili nella comunicazione quotidiana).

 

Ma ci sono altri numerosi fenomeni che infarciscono il parlato diluendolo e facendo sì che, per ‘dire le stesse cose’ (cioè per trasmettere le stesse informazioni) si usino più parole e si impieghi più tempo che non scrivendo (o nel leggere quelle medesime cose per iscritto). Non sempre è possibile distribuire tali fenomeni in classi nettamente separate (e le loro stesse denominazioni possono sconfinare talvolta  nella sinonimia), ma si possono citare:

  • allungamenti vocalici
    Quando si parla, spesso si protrae il proferimento della vocale finale di parola, anche per prendere tempo durante la ricerca della parola da immettere dopo nella catena parlata. Es.: “per esempioooo… facciamo finta diiii…. dover fare un viaggio”;

  • zeppe sillabiche
    Un allungamento analogo, indice di piccole esitazioni nella costruzione del discorso, può riguardare intere sillabe (o addirittura intere parole), che risultano così ripetute. Es.: facciamo finta diii… di dover fare un viaggio”;

  • fatismi
    Sono formule di contatto, volte a verificare il buon funzionamento della comunicazione, e in particolare del canale. Es.: “Di questo argomento abbiamo parlato ieri…no?. Il sistema pronominale italiano è molto complesso… vero…”;

  • riempitivi di silenzio
    Fatismi e altri intercalari automatizzati, di cui il parlante che li usa non è spesso neppure consapevole – come i vari cioè, come dire, praticamente, mmh ecc. - servono, oltre che a prendere tempo, anche per “riempire il silenzio” che altrimenti si produrrebbe e che potrebbe indurre l’interlocutore a prendere la parola a sua volta;

  • false partenze
    Si hanno quando, iniziato un enunciato, prima di averlo concluso si cambia completamente la sua formulazione, ripartendo da capo in modo differente. Es. “L’edificio ha… la mia scuola è un edificio molto grande”;

  • rotture di costruzione
    Si verificano quando un enunciato prosegue in modo sintatticamente differente da quello richiesto dall’impostazione iniziale.
    Es.: “Chi non ha fatto i compiti… è a lui che mi rivolgo”. 

Il cumulo dei fenomeni di questo tipo consente di parlare di frammentarietà del parlato, dovuta  anche al fatto che nel parlato è evidente la processualità (e la fatica correlata) della produzione testuale: in ogni momento chi parla deve scegliere, l'una dopo l'altra, le parole da mettere in successione e le strutture sintattiche entro cui calarle, senza avere molto tempo per riflettere. Nella scrittura è invece più in evidenza il testo come prodotto, che si ha sempre modo di limare, aggiustare, correggere prima di farlo pervenire al destinatario.

 

La 'non correggibilità' del parlato, in cui quanto è stato detto, anche se frutto di lapsus evidente, non può essere cancellato/eliminato, spiega perchè fenomeni come rotture di costruzione, riempitivi di silenzio, ecc. siano reperibili anche nel parlato più fluente, formale e colto, anche se in misura minore rispetto a quello più informale e colloquiale. Ma si tratta anche di ‘inceppi’ inevitabili e fisiologici del parlato che, almeno entro un certo limite,  non vengono neppure percepiti da chi ascolta. Infatti chi ascolta è guidato soprattutto dall'intonazione di chi parla ed è proteso a seguire il filo (semantico) del discorso. E quanto diluisce il discorso gli serve anche per dargli il tempo di seguirlo meglio. Alla luce di quest’ultima considerazione, si può dire che fenomeni di questo tipo sono addirittura necessari alla riuscita della comunicazione. Per capirlo basta pensare a quanto sia notevolmente faticoso e difficile seguire invece uno scritto letto ad alta voce: in tal caso questi fenomeni vengono a mancare, essendo il testo già confezionato, senza che si debba fare la fatica di sceglierne le parole e di elaborarlo nel momento stesso in cui lo si proferisce.


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