Oggi i linguisti sanno bene che, nell’uso, ogni lingua è soggetta alla variazione. Le lingue, infatti, non sono sistemi monolitici, ma si articolano in un insieme di varietà linguistiche, individuabili in correlazione con alcuni fattori. Guardate privilegiando le dimensioni della variazione, le lingue sono oggetto di studio, in particolare, della sociolinguistica.
Più precisamente, le varietà di ogni lingua sono individuabili in modo correlato alla variazione
Le varietà geografiche di una lingua sono spesso chiamate dialetti, ma il termine è ambiguo dato che, nella tradizione degli studi anglosassoni esso è utilizzato anche per designare varietà sociali (per esempio il cosiddetto dialetto dei neri d’America, il black English). Inoltre, quelli che in Italia vengono chiamati dialetti (il romanesco, il napoletano, il siciliano ecc.), lungi dall’essere articolazioni interne (o varietà) dell’italiano, sono sistemi linguistici altri, sviluppatisi parallelamente e indipendentemente dall’italiano stesso: i veri dialetti dell’italiano, intesi come sue varietà geografiche, sono invece gli italiani regionali.
Ciascuno dei parametri (detti anche dimensioni) di variazione sopra elencati determina un insieme di varietà che sono però isolabili solo in astratto. In realtà, tali parametri si intrecciano inesorabilmente negli usi linguistici e nella testualità concreta. In particolare, la variazione diafasica e quella diastratica attraversano la variazione diamesica e si associano, spesso inestricabilmente, specie nel parlato, a quella diatopica. Per esempio, il parlato (varietà diamesica) appartiene sempre, contemporaneamente, a un determinato registro (varietà diafasica) e può essere più o meno colto o popolare (varietà diastratica), attraversato da una regionalità più o meno marcata (varietà diatopica). Inoltre, questo quadro di varietà appartiene sempre ad uno stato di lingua che, nel suo insieme, è una varietà diacronica della medesima lingua: tutte le lingue cambiano anche nel tempo, sono soggette alla variazione detta appunto diacronica, e ce ne accorgiamo ogni volta che ne studiamo la storia o ogni volta che studiamo una data lingua in un momento preciso del suo passato. Ma anche quando studiamo una lingua, qualunque lingua, senza porci il problema della sua configurazione e funzionamento nel passato, ne stiamo studiando, in realtà, una varietà diacronica (quella dell’era contemporanea), e la consapevolezza di ciò è forse più importante di quanto non appaia a prima vista.
Nel momento in cui si insegna una lingua straniera, occorre dunque scegliere quale varietà di lingua privilegiare nell’insegnamento, ma nella consapevolezza che prima o poi chi imparerà quella lingua, soprattutto se dovrà usarla nell’interazione con parlanti nativi, dovrà fare i conti con le varie dimensioni della variazione e dunque dovrà possedere i mezzi per orientarvisi. In genere, comunque, è opportuno privilegiare una varietà standard o ‘comune’, mediamente colta e non troppo marcata quanto a formalità; ma c’è una dimensione della variazione linguistica di cui tenere conto da subito, soprattutto se si vuole che gli studenti lavorino il prima possibile con e su testi autentici e se si vogliono sviluppare in modo armonico le quattro abilità linguistiche di base: si tratta della dimensione diamesica, che oppone, in tutte le lingue che conoscono la scrittura, il parlato allo scritto.
Chi insegna una lingua come straniera ha tra l’altro, in genere, come obiettivo alto da perseguire quello di dare ai suoi allievi una competenza comunicativa e linguistica abbastanza sviluppata nel parlato. E dovrebbe badare anche al parlato più informale e colloquiale, cioè a quel tipo di parlato che è più semplice e ovvio per i parlanti nativi, ma che è spesso più difficile da comprendere agevolmente per gli stranieri. Ai parlanti nativi di una lingua (e dunque ai ragazzi italiani in Italia) è invece più importante insegnare a gestire bene altri tipi di parlato, da usare in maniera formale e in situazioni pubbliche. Ma anche chi insegna una lingua classica, pur non dovendo insegnare a parlarla, deve essere quanto mai consapevole della sua natura di lingua morta e ormai solo scritta, descritta da una grammatica ricavata da testi solo scritti in una varietà, per di più, letteraria, rispetto alla quale il latino o il greco parlati dovevano presentare notevoli differenze. E di tali differenze restano tracce indirette sopratutto nei testi teatrali o nel dialogato dei testi narrativi, o anche nei graffiti e nelle scritte murali ancora reperibili in certi siti archeologici che, come tutte le scritture ‘esposte’, presentano tratti linguistici più vicini a quello che doveva essere il parlato reale, greco o latino.