Colophon
© Agenzia Scuola 2012
Le interminabili descrizioni di luoghi e di cose mettono a dura prova la pazienza di chi non sia interessato all'eccesso dei dettagli.
Se Walter Scott avesse dovuto descrivere una spiaggia della costa scozzese avrebbe descritto ogni pietra, ogni animale, ogni angolo. Questa meticolosità poco funzionale alla storia non risponde alle esigenze del lettore moderno.
Proviamo a guardare alcune possibilità per ambientare un possibile racconto:
La descrizione deve essere dettagliata?
Non si tratta di descrivere tutto, bisogna anzi descrivere solo quello che gioca un ruolo nel testo considerato. Esaminiamo un dettaglio in Cechov. Prendiamo uno schizzo preparatorio tratto da un taccuino; si tratta della descrizione di una camera da letto: "la luce della luna batteva nella finestra in modo che si vedevano perfino i bottoni sulla camicia da notte". Cos'ha di buona questa descrizione? Il fatto che il livello di luminosità della luce è trasmesso con un dettaglio caratteristico di una camera da letto.
(V. B. Sklovskij, Il mestiere dello scrittore e la sua tecnica)
Un primo racconto marino
Si invitano gli alunni a scrivere un racconto ambientato al mare, continuando una frase proposta da Pier Paolo Pasolini (Ragazzi di vita) o un'altra di Nadia Fusini (Due volte la stessa carezza.)
Ancora un racconto marino
Si propone la lettura a casa di due racconti ambientati al mare, uno di Goffredo Parise e l'altro di Doris Lessing, e si suggerisce di sottolinearne tutte le parole o le espressioni legate all'ambiente marino, in modo da arricchire il lessico personale.
Poi, a scuola, si chiederà di scrivere un primo breve racconto ambientato al mare, con due personaggi principali: una madre (o un padre) e un figlio (o una figlia).
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Questo prodotto multimediale è stato realizzato nel 2012 da INDIRE – ANSAS con i fondi del Progetto PON Lingua, letteratura e cultura in una dimensione europea, codice B-10-FSE-2010-2, cofinanziato dal Fondo Sociale Europeo.
La grafica, i testi, le immagini, l’audio, i video e ogni altra informazione disponibile in qualunque formato sono utilizzabili a fini didattici e scientifici, purché non a scopo di lucro e sono protetti ai sensi della normativa in tema di opere dell’ingegno (legge 22 aprile 1941, n. 633).
Prima edizione 2012 - Progetto PON Lingua, letteratura e cultura in una dimensione europea, codice B-10-FSE-2010-2
James Joyce ci insegna a raccontare una spiaggia con pochi periodi nitidi e degli oggetti:
Una bottiglia di birra si rizzava, infitta fino alla cintola, nell'impasto grumoso della sabbia. Una sentinella: isola dalla terribile sete. Cerchi di botte rotti sulla spiaggia; dalla parte di terra un dedalo di oscure reti scaltre; ancora più lontano porte posteriori scarabocchiate di gesso, e su un ripiano più alto del litorale una corda per il bucato con due camicie crocifisse.
(J. Joyce, Ulisse)
Ogni particolare crea un senso di profonda desolazione, così capiamo dalla spiaggia assetata, disseminata di bottiglie e di botti sfasciate, e dalle camicie crocifisse alla corda del bucato che il paesaggio esteriore è un paesaggio interiore e che quella serie di oggetti (correlativi oggettivi) sia pronta a ricreare un'emozione provata.
Àlvaro prendeva seriamente il suo lavoro. Si alzava ogni giorno alle otto in punto. Si liberava dal torpore con una doccia fredda e andava al supermercato a comprare il pane e il giornale. Al ritorno, preparava il caffè, il pane tostato con burro e marmellata e faceva colazione in cucina, sfogliando il giornale e ascoltando la radio. Alle nove si sedeva alla scrivania nello studio, pronto a iniziare la giornata lavorativa. Aveva subordinato la propria vita alla letteratura; amicizie, interessi, ambizioni, possibilità di miglioramenti economici o nell'attività lavorativa, le uscite serali o diurne, tutto era in funzione di quella.
(J. Cercas, Il movente)
Angusto e ridotto è lo spazio di un condominio, dove vive il protagonista de Il movente di J. Cercas, ma chi legge la storia sa, che il personaggio non avrebbe potuto vivere che lì.
Questo spazio di quotidianità routinaria fa trasparire l'indole e le aspirazioni di Àlvaro, uno scrittore quotidianamente impegnato a scrivere e interessato a riprodurre il più fedelmente possibile la realtà che lo circonda. Scriverà la storia di una coppia in difficoltà economiche che uccide un vecchio avaro del condominio. L'omicidio, per quanto frutto della sua invenzione narrativa, non sarà privo di inconvenienti.
In questo caso, lo spazio del condominio diventa elemento di coesione fra personaggi diversissimi, ma legati dal fatto di abitare la stessa casa.
La stessa importanza nel rivelare la natura del personaggio e il rapporto coesivo con gli altri personaggi della storia ha la montagna per la nonna di Lessico familiare o la villa di Fulvia per Milton di Una questione privata:
Andavano sulle strade maestre, perché lei era vecchia, e non poteva praticare i sentieri, soprattutto con quegli stivaletti a piccoli tacchi; andavano, lui avanti, coi suoi passi lunghi, mani alla schiena e pipa in bocca, lei dietro, con la sua veste frusciante, con i passetti dei suoi tacchettini; lei non voleva mai andare sulla strada dov'era stata il giorno prima, voleva sempre strade nuove; - Questa è la strada di ieri - si lamentava, e mio padre le diceva distratto, senza voltarsi: - No, è un'altra; – ma lei seguitava a ripetere: - È la strada di ieri. È la strada di ieri. […] Lei del resto veniva in montagna soltanto per stare con noi, dato che abitava a Firenze durante l'anno, e noi a Torino, e così ci vedeva soltanto l'estate; ma non poteva soffrire la montagna, e il suo sogno sarebbe stato villeggiare a Fiuggi o a Salsomaggiore, luoghi dove aveva trascorso le estati della sua giovinezza.
(N. Ginzburg, Lessico familiare)
La bocca socchiusa, le braccia abbandonate lungo i fianchi, Milton guardava la villa di Fulvia, solitaria sulla collina che degradava sulla città di Alba. Il cuore non gli batteva, anzi sembrava latitante dentro il suo corpo. Ecco i quattro ciliegi che fiancheggiavano il vialetto oltre il cancello appena accostato, ecco i due faggi che svettavano di molto oltre il tetto scuro e lucido. I muri erano sempre candidi, senza macchie né fumosità, non stinti dalle violente piogge degli ultimi giorni. Tutte le finestre erano chiuse, a catenella, visibilmente da molto tempo. "Quando la rivedrò? Prima della fine della guerra è impossibile. Non è nemmeno augurabile. Ma il giorno stesso che la guerra finisce correrò a Torino a cercarla. E' lontana da me esattamente quanto la nostra vittoria.
(B. Fenoglio, Una questione privata)
La siccità si protraeva ormai da dieci milioni di anni, e il regno delle terribili lucertole era finito da molto tempo. Lì, sull'Equatore, nel continente che un giorno sarebbe stato chiamato Africa, la lotta per la vita aveva raggiunto un nuovo diapason di ferocia, e il vincitore ancora non si intravedeva. In quella terra sterile e arida soltanto le creature piccole o fulminee o feroci potevano prosperare, o appena sperare di sopravvivere.
Gli uomini scimmia del veldt non possedevano alcuna di queste caratteristiche e non stavano prosperando; si trovavano anzi già molto avanti sulla via dell'estinzione della razza.
(A. C. Clarke, 2001: Odissea nello spazio)
Il termine 'isolamento' si riferisce alla capacità di un autore di confinare i personaggi in uno spazio circoscritto, fino al limite del completo distacco sociale.
Arthur C. Clarke in 2001: Odissea nello spazio isola i protagonisti nello spazio cosmico, H. Hemingway ne La breve vita felice di Francis Macomber ci racconta di tre personaggi impegnati in un safari in Africa, Melville in Billy Budd pone i protagonisti a bordo di una nave.
Raggiunto San Daniele Po, passando accanto a suinifici, macelli di polli, allevamenti industriali di bovini. Sbarcato nel bar centrale ho telefonato agli amici dell'insegnante di matematica, per dire che arrivo presto. Ma sono solo le quattro e mezza, ho voglia di starmene per conto mio. La piazzetta con gli alberelli stenti e un distributore di benzina chiuso, sulla destra il Cinema Splendor in una malmessa palazzina con facciata a gradini (aperto il giovedì), e l'altro bar proprio attaccato sulla sinistra con ragazzi stravaccati nelle sedie all'aperto. Accanto a me una ragazza punk molto grassa, jeans stracciati e giubbetti di cuoio, beve Cocacola in lattina; un vecchio contadino dalle guance rubizze la guarda; un bambino anche lui molto grasso si succhia in solitudine un enorme gelato; il barista, giovane, baffuto, arriva con scritta sulla maglietta: From the East Coast of Amerika.
(G. Celati, Verso la foce)
Si immagina che i viaggi esotici siano molto interessanti, ma curiosamente anche un viaggio in spazi vicini e quotidiano può riservare delle sorprese.
Lo scrittore Gianni Celati con un quaderno ha percorso in autostop, a piedi, in pullman un tragitto lungo il Po fino a raggiungerne la foce.
Respingendo da me quel che doveva essere stato un sogno, cercai di esaminare meglio l'aspetto reale dell'edificio. Carattere principale ne pareva un'eccessiva antichità. I secoli l'avevano profondamente scolorito, e minute fungosità ricoprivano la facciata, fino al tetto, come un delicato intreccio di tessuto. Ma tutto questo non aveva provocato deperimenti straordinari; la fabbrica era intatta, e c'era una contraddizione violenta fra il consistere ancora perfetto delle sue parti e il deperimento delle singole pietre, che mi faceva pensare all'integrità speciosa di qualche vecchia tavola di legno rimasta lungamente a marcire in una cantina dimenticata. Ma, a parte questa corrosione di tutta la superficie, la casa pareva ancora abbastanza salda; forse l'occhio d'un puntuale osservatore avrebbe scoperto una quasi impercettibile fessura, che, partendo dall'alto della facciata, percorreva il muro a zig-zag perdendosi infine nelle acque malsane della palude.
(Edgar Allan Poe, Casa degli Usher)
Nella Casa degli Usher di Edgar Allan Poe assistiamo ad una lenta metamorfosi. Un ambiente familiare assume progressivamente tratti inquietanti.
La casa si sta decomponendo, come un essere vivente, e il paesaggio circostante partecipa della stessa metamorfosi.
II giorno di ferragosto dell'anno 1938 un bambino di otto anni, di "ottima famiglia", con la testa molto rotonda ma fragile si aggirava nei pressi della capanna sulla spiaggia del Grand Hôtel Des Bains al Lido di Venezia verso le due del pomeriggio. Era solo perché la sua abituale compagna di giochi dormiva insieme alla bambinaia nella stanza candida dell'albergo. I bambini tedeschi che aveva conosciuto pochi giorni prima, di qualche anno più vecchi di lui e già nuotatori esperti (lui non imparava mai) non avevano il permesso di rimanere sulla spiaggia a quell'ora e giocavano a cricket nel prato in mezzo al parco tra gli spruzzi degli annaffiatoi. La madre del bambino, che amava molto il sole, stava distesa metà in ombra e metà alla luce su un lettino coperto da un asciugamano bianco di spugna di lino con grandi cifre bianche simili al disegno di una torre: bronzea e lucente di Ambra Solare, i lunghissimi capelli neri, sciolti e rovesciati dalla nuca in su oltre il bordo del lettino, lambivano la sabbia: di tanto in tanto, forse nel sonno, aveva movimenti lentissimi e regali di atleta o di serpente boa che ai raggi potenti del sole abbagliavano. La "signorina", fräulein Etta, dormiva (ma non si poteva mai esserne certi) su una sdraio nel terrazzino della capanna, completamente vestita, la pelle delle guance, delle braccia e delle gambe uniformemente rosa e di un odore uniforme (sapone di Marsiglia). Il suo volto era come tappato, ai lati, da due chignons di capelli misti, biondi e bianchi, fatti di trecce sottili e indissolubili. Il caldo era molto forte, l'acqua immobile e la spiaggia quasi deserta. Eppure di là dei cespugli e della rete metallica dietro le capanne il bambino vedeva muoversi e occhieggiare una folla di gitanti con cartoni e sporte, alcuni dei quali allungavano il collo oltre la siepe per guardare la sabbia rastrellata a disegni ondulati e, oltre la sabbia, il mare. Il bambino stava nell'ombra a forma di casetta allungata dietro la capanna, fermo, molto distratto non si sa da che cosa, il secchiello in una mano e la paletta nell'altra, si sarebbe detto nell'atto di sostenere la sua testa rotonda e molto ingenua. A un tratto vide un uomo scavalcare la siepe: nel farlo scivolò due volte, si impigliò nei reticolati che strapparono l'abito blu ma pareva avere molta fretta e finalmente cadde, con movimenti incrociati degli arti troppo lunghi, di qua del recinto. Stette un po' cosí ammucchiato tra la sabbia polverosa, guardando a destra e a sinistra, vide il bambino che lo guardava e dopo essersi assicurato che non c'era nessun altro che lui, lo chiamò con un cenno della mano. Pieno di terrore, ma al tempo stesso attratto, il bambino si avvicinò con una piccola corsa bilanciata dal secchiello e dalla paletta. L'uomo si era alzato, aveva raggiunto lo stretto spazio tra due capanne vuote dell'ultima fila e lo aspettava lí. Era un uomo molto alto e magrissimo, con la pelle bianca, un volto a punta e due grossissime lenti insieme opache e scintillanti attraverso cui non era possibile vedere gli occhi. Il bambino notò che una delle stanghette di metallo era rotta e aggiustata con filo nero da cucire, anche le scarpe erano rotte e i calzini arrotolati sulla caviglia fin quasi alla scarpa. L'uomo cominciò a spogliarsi, in modo cosi rapido e magico, data la sua altezza, che in un attimo fu in mutande, con grande vergogna e imbarazzo del bambino: un paio di mutande larghe di tela nera con uno strappo a forma di sette sul dietro. L'uomo arrotolò scarpe e abiti e porgendo al bambino l'enorme fagotto disse: - Mi fai un piacere? - e tentò di carezzarlo con la fredda estremità di un lunghissimo arto (non sembrava una vera e propria mano). Il bambino paralizzato dal terrore si ritrasse, non rispose e l'uomo ripeté la domanda, poi gli chiese di custodire i suoi vestiti per pochissimo tempo: voleva "lavarsi i piedi" e vedere il mare che non aveva mai visto. Dopo gli avrebbe dato "la mancia". Queste spiegazioni e i grossi occhiali rotti attenuarono il terrore nel bambino ed egli, suo malgrado, fu spinto, fisicamente spinto verso l'uomo da una grandissima pietà. Allungò le braccia, l'uomo nel posare il fagotto si avvicinò guardandolo da vicino come fanno i miopi e vide le lacrime che sgorgavano sulle sue guance. Sorrise con la bocca bagnata e informe che sapeva di vino e tabacco e disse: - Ti hanno messo in castigo? - e scomparve.
Il bambino vide due sottili e chilometriche gambe di legno, la bandiera nera delle mutande strappate in uno sventolio generale, laggiù, in fondo alla spiaggia; e subito fu terrorizzato dalla responsabilità e dal peso degli abiti che non riusciva a reggere tra le braccia e gli caddero nella sabbia: pensò all'uomo e lo odiò, dimenticando totalmente il sentimento di poco prima. Con sforzi enormi riuscí a trascinare il fagotto puzzolente vicino alla capanna. Spiò la madre e fräulein Etta: dormivano entrambe. Con un ultimo sforzo portò il cumulo degli abiti in un cantuccio della capanna, lo ammucchiò nel fondo, ma proprio in quel momento sentí dietro di sé l'ombra e la voce strillante dell'istitutrice: - Was ist denn das? - II bambino farfugliò in italiano, non trovò le parole in tedesco, posò le due mani sulla testa rotonda come per sostenerla e con l'intenzione (non sapeva né riusciva a sapere bene quale) di raccontare tutto in fretta o di chiedere perdono. Le voci risvegliarono la madre che sollevò con una mano i capelli e chiese cos'era successo. Fräulein Etta spiegò ciò che non poteva spiegare perché non gli era stato spiegato e non seppe andare oltre una serie di sospiri agitati che cominciavano e finivano con "Ein mann... ein mann..." Fu chiamato il fedele e vecchio bagnino che esaminò il fagotto (allontanato dall'interno dalla cabina con brevi tocchi della punta delle scarpe da fräulein Etta) e corse sulla spiaggia con i pugni chiusi a cercare l'uomo. Fu individuato subito, preso per un braccio e portato a loro tra bestemmie, spinte e contorcimenti dei lunghi arti. Parve al piccolo che l'uomo avesse fatto il gesto di sputare contro il bagnino che lo trascinava. La madre disse: - Lo lasci andare, Giovanni. L'uomo liberato dal bagnino si avvicinò al gruppetto familiare e disse alla madre che aveva intenzione di pagare, che lui non era un ladro e non aveva mai rubato in vita sua. Cavò dal fagotto una specie di portafogli di stoffa nera e avvicinandolo agli occhiali stava per estrarre del denaro, ma la madre lo fermò con un gesto della mano e disse: - No, no -. Poi l'uomo guardò il bambino e con un sorriso che questi intuí debole e falso, voleva carezzarlo ma la fräulein scostò il bambino. Allora l'uomo se ne andò col fagotto e nelle mutandone a passi lunghi e lenti e per simulare una dignità che aveva perduta fin dalla nascita si ravviava i sottili capelli a testa alta. La madre ordinò al bagnino di curvare l'ombrellone, si girò lentamente ed espose tutto il lungo corpo nel costume nero, al sole. Fräulein Etta cominciò a fare al bambino una paternale a raffiche sugli unbekannten (sconosciuti), a pause sempre più lunghe, fin quasi al tramonto. Poi calò il sole e la famiglia si ritirò nell'appartamento dell'albergo come in una clinica. Durante la notte il bambino pensò all'uomo ascoltando la pigra acqua della laguna appoggiarsi sulla spiaggia insieme ai raggi lunari. Si domandò molte cose di lui cercando di arguirle dagli occhiali, dalla pelle bianca, dalle scarpe di gigante e dal fagotto. Fu preso ancora da grandissima commozione e due o tre volte pianse. Chi era? Un ladro, un ex carcerato, un povero, un ricco diventato povero (avrebbe potuto accadere anche a lui, da grande, una cosa simile?), un ammalato, e com'era possibile che non avesse mai visto il mare? Aveva o non aveva famiglia? E lui perché aveva pianto? Tutte queste domande rimasero senza risposta nel bambino e più tardi anche nell'uomo adulto, ma fu da quel giorno che egli seppe, proprio perché nessuna risposta ebbero mai le sue domande, dell'esistenza degli "altri".
Mentre andava alla spiaggia, la prima mattina delle vacanze, il ragazzo inglese si fermò a una svolta del sentiero e guardò in giù, verso una baia selvaggia e rocciosa, e poi verso la spiaggia affollata che conosceva così bene dagli anni scorsi. Sua madre continuò a camminare davanti a lui, portando in una mano una borsa a righe dai colori vivaci. L'altro suo braccio, penzolante sul fianco, era bianchissimo nel sole. Il ragazzo osservò quel braccio bianco e nudo, e riportò gli occhi, che ebbero una rapida contrazione, sulla baia e, ancora, verso sua madre. Quando questa s'accorse che non le stava accanto, si voltò. "Oh, sei là, Jerry!" disse. Parve impaziente, poi sorrise. "Come, caro, preferiresti non accompagnarmi? Preferiresti.." S'accigliò, chiedendosi ansiosamente quali altri svaghi, da lei non immaginati per trascuratezza o mancanza di tempo, egli potesse desiderare in segreto. Il ragazzo conosceva bene quel sorriso ansioso, di scusa. Il rimorso lo spinse a correre da lei. Eppure, mentre correva, guardava indietro, di sopra la spalla, verso la baia selvaggia; e ci pensò per tutta la mattinata, mentre giocava sulla spiaggia, al sicuro. Il mattino seguente, quando fu l'ora di ritornare alle quotidiane nuotate e ai quotidiani bagni di sole, sua madre disse: "Sei stanco della solita spiaggia, Jerry? Ti piacerebbe andare da qualche altra parte?" "Oh, no!" disse lui in fretta, sorridendole sotto quell'immancabile fitta di rimorso: un sentimento simile alla cavalleria. Però, mentre scendeva assieme a lei per il sentiero, non seppe frenarsi: "Mi piacerebbe andare a dare un'occhiata a quegli scogli laggiù." Lei considerò l'idea con la massima attenzione. Sembrava un posto abbastanza selvaggio, e non c'era nessuno, ma disse: "Va bene, Jerry. Quando ti sarai stancato, vieni alla spiaggia grande. Oppure torna direttamente alla villa, se preferisci." S'allontanò, dondolando il braccio nudo, ora lievemente arrossato dal sole del giorno prima. E lui fu quasi tentato di correrle dietro, sembrandogli intollerabile che dovesse andare sola; ma si trattenne. Lei pensava: è chiaro che è abbastanza grande per cavarsela senza di me. Me lo sono forse tenuto troppo attaccato? Non deve sentirsi costretto a starmi vicino. Bisogna che stia attenta. Era figlio unico, e aveva undici anni. Lei era vedova. Non voleva essere opprimente, ma non voleva neanche trascurarlo. Andò alla spiaggia, preoccupata. Jerry, appena vide che sua madre aveva raggiunto la spiaggia, cominciò la ripida discesa verso la baia. Da dove si trovava, lassù in alto, tra rocce rossoscuro, la baia appariva come una conca d'acqua verde azzurra, in movimento, crespata di bianco. Man mano che scendeva, notò che la baia si allargava tra piccoli promontori e insenature di roccia scabra e aguzza, e la superficie del mare, increspandosi e ripiegandosi su se stessa, rivelava macchie di un rosso e azzurro piú intenso. Finalmente, mentre correva a balzi e scivoloni giù per gli ultimi metri, vide un frangersi di candida spuma e, sulla sabbia bianca, la traccia lucente dell'acqua bassa, e, più oltre, un azzurro compatto e carico. Corse dritto nell'acqua e cominciò a nuotare. Era un buon nuotatore. S'allontanò rapidamente, passando sulla sabbia luccicante e su una zona intermedia dove sottacqua le rocce s'allungavano come mostri scoloriti, e fu in mare aperto: un mare caldo dove irregolari correnti fredde, venendo dal fondo, colpirono le sue membra. Quando fu così al largo che, voltandosi indietro, poté spaziare lo sguardo non solo sulla piccola baia, ma anche oltre il promontorio che separava la baia dalla spiaggia grande, galleggiò sulla superficie elastica e cercò sua madre. Eccola là, una chiazza gialla sotto un ombrellone che pareva una fetta di buccia d'arancia. Tornò a nuoto alla spiaggia, sollevato perché sapeva che lei era là, ma sentendosi improvvisamente molto solo. All'estremità di un piccolo capo che costituiva un lato della baia, a qualche distanza dal promontorio, c'era un ammasso disordinato di rocce. In cima, alcuni ragazzi si stavano strappando di dosso i vestiti. Scesero di corsa, nudi, sugli scogli. Il ragazzo inglese nuotò nella loro direzione, e si mantenne a breve distanza. Erano della costa, tutti quanti con un'abbronzatura uniforme e scura, e parlavano una lingua che egli non comprendeva. Essere con loro, dei loro, era un desiderio che gli riempì tutto il corpo. Nuotò un po' più vicino; si voltarono e lo osservarono con occhi socchiusi, scuri e vigili. Poi uno sorrise e agitò la mano. Fu sufficiente. In un minuto, nuotò fin là e fu sugli scogli assieme a loro, con un sorriso che era una implorazione disperata e nervosa. Lo salutarono con urla allegre, poi, siccome conservava il sorriso esitante di chi non capisce, compresero che era uno straniero allontanatosi dalla propria spiaggia e si accinsero a dimenticarlo. Ma lui era felice. Era con loro. Cominciarono a tuffarsi e a rituffarsi da un alto scoglio in una conca di mare azzurro, tra rocce scabre e puntute. Dopo essersi tuffati, tornati a galla, facevano il giro a nuoto, si aiutavano a salire, e attendevano il turno per tuffarsi di nuovo. Erano ragazzi grandi: uomini, per Jerry. Si tuffò, e quelli stettero a guardarlo, e, quando fece il giro a nuoto per rimettersi in fila, gli fecero posto. Comprese d'essere stato accettato, e si tuffò di nuovo, con attenzione, fiero di sé. Subito dopo il più robusto dei ragazzi si portò in bilico, si gettò in acqua, e non tornò a galla. Tutt'intorno, gli altri stavano a guardare. Dopo aver atteso che la lucida testa bruna riaffiorasse, Jerry lanciò un grido d'allarme. Lo guardarono annoiati; poi volsero di nuovo gli occhi verso l'acqua. Dopo molto tempo, il ragazzo venne a galla dall'altra parte di una grossa roccia scura, scaricando l'aria dai polmoni in un ansito sibilante e con un grido di trionfo. Subito dopo si tuffarono tutti gli altri. Un attimo prima, il mattino pareva pieno di ragazzi vocianti; subito dopo, l'aria e la superficie dell'acqua furono deserte. Ma attraverso l'azzurro intenso si potevano scorgere forme scure che guizzavano e procedevano a tentoni.
Si tuffò anche Jerry, superò veloce il branco di nuotatori subacquei, vide una nera parete di roccia sopra di lui, la toccò e sali subito alla superficie, dove la parete formava una bassa barriera oltre la quale poteva spingere lo sguardo. Non c'era nessuno in vista. Sotto di lui, nell'acqua, le ombre scure dei nuotatori erano scomparse. Infine uno, e poi un altro ancora dei ragazzi venne a galla dall'altra parte della barriera di roccia, ed egli comprese che avevano attraversato a nuoto qualche breccia o anfratto nella roccia. Si tuffò di nuovo. Attraverso la bruciante acqua salata non riuscì a scorgere altro che la roccia nuda. Quando tornò a galla, i ragazzi erano tutti sullo scoglio che fungeva da trampolino, e si preparavano a tentare l'operazione un'altra volta. Allora, preso dal terrore di non riuscire, strillò, in inglese: "Guardatemi! Guardate!" e cominciò a sollevare spruzzi ed a scaldare nell'acqua come un cagnolino che ha voglia di divertirsi. Quelli abbassarono gli occhi, con aria grave, accigliati. Conosceva quel cipiglio. Nei momenti di insuccesso, quando faceva il pagliaccio per richiamare l'attenzione di sua madre, era proprio con quell'aria grave e imbarazzata che lei lo guardava. Nella sua bruciante vergogna, sentendosi sulla faccia il sorriso d'implorazione come una cicatrice che non avrebbe mai potuto cancellare, guardò in alto, verso il gruppo dei ragazzi abbronzati, in piedi sulla roccia, e gridò: "Bonjour! Merci! Au revoir! Monsieur, monsieur!" mentre si metteva le dita attorno alle orecchie e le moveva avanti e indietro. Un'ondata gli entrò in bocca; restò mezzo soffocato, andò a fondo, venne a galla di nuovo. Lo scoglio, che un attimo prima sosteneva il peso dei ragazzi, parve balzare fuori dall'acqua appena il loro peso fu tolto. Volavano giù nell'acqua, adesso, scavalcandolo; l'aria era piena di corpi che cadevano. Infine lo scoglio rimase deserto nella calda luce del sole. Contò uno, due, tre... A cinquanta si spaventò. Certo stavano annegando tutti quanti sotto di lui, nelle cavità sottomarine della roccia! A cento, si guardò attorno e fissò smarrito il fianco deserto della collina, chiedendosi se doveva invocare aiuto. Contò più in fretta, sempre più in fretta, per farli risalire subito, per portarli rapidamente alla superficie, per annegarli rapidamente: qualunque cosa, piuttosto che il terrore di continuare a contare nella celeste vacuità del mattino. Ed ecco che, a centosessanta, l'acqua oltre lo scoglio fu piena di ragazzi che soffiavano come brune balene. Ritornarono a nuoto alla spiaggia, senza degnarlo d'uno sguardo. Tornò ad arrampicarsi sulla roccia che faceva da trampolino e si mise a sedere, sentendo sotto le cosce la calda asperità dello scoglio. I ragazzi raccolsero gli abiti e s'allontanarono di corsa lungo la spiaggia, verso un altro promontorio. Se ne andavano per non averlo tra i piedi. Pianse senza ritegno, con i pugni negli occhi. Nessuno lo vedeva, e pianse finché non ne poté Gli parve che fosse trascorso molto tempo, e nuotò fin dove riusciva a vedere sua madre. Sí, era ancora là: una macchia gialla sotto un ombrello color arancione. Ritornò a nuoto al grande scoglio, vi si arrampicò e si tuffò nella conca azzurra tra gli spuntoni di roccia, zannuti e rabbiosi. Andò giú finché toccò di nuovo la parete di roccia. Ma il sale gli bruciava tanto gli occhi che non riusciva a vedere. Venne a galla, nuotò fino alla spiaggia e tornò alla villa ad attendere sua madre. Presto lei salì per il sentiero a passo lento, facendo dondolare la borsa a righe, con il braccio arrossato, nudo, che penzolava sul fianco. "Voglio una maschera subacquea," ansimò lui, spavaldo e implorante. L'osservò, paziente, mentre diceva con noncuranza: "Be', sì, certo, caro." Ma subito, subito, subito! Doveva averla in quell'istante, non un minuto più tardi. Insistette e la importunò finché lei lo accompagnò in un negozio. Appena ebbe comperato la maschera, gliela strappò di mano come se lei volesse tenerla per sé, e corse via, giù per il sentiero ripido, alla baia. Jerry nuotò fino alla grossa barriera di roccia, si mise la maschera, e si tuffò. L'urto dell'acqua allentò la maschera, che fece acqua. Capì che doveva immergersi fino alla base della roccia partendo dalla superficie dell'acqua. Strinse bene la maschera, si riempi i polmoni, e provò a galleggiare, faccia in giù, sull'acqua. Adesso riusciva a vedere. Era come se avesse occhi diversi, occhi di pesce cui tutto si rivelava chiaro e delicato, tremolante nell'acqua luminosa. Sotto di lui, due o tre metri più in basso, c'era una distesa di sabbia bianca e luccicante, perfettamente pulita, resa ondulata, ferma e compatta dalle maree. Vi si diressero due forme grigiastre, simili a lunghi pezzi affusolati di legno o di lavagna. Erano pesci. Li vide bilanciarsi immoti, naso contro naso, fare un guizzo in avanti, allontanarsi con uno scarto, e fare un altro giro. Era come una danza acquatica. Pochi centimetri più su, l'acqua luccicava come se fosse attraversata da una cascata di zecchini d'oro. Altri pesci, miriadi di pesci piccolissimi, lunghi quanto la sua unghia, si lasciavano portare dalla corrente attraverso l'acqua, e in un attimo poté sentire le innumerevoli piccole punture contro le membra. Era come nuotare nell'argento in scaglie. La grande roccia che i ragazzi avevano attraversato a nuoto sorgeva perpendicolarmente dalla sabbia bianca, nera, coperta di radi ciuffi di alghe verdastre. Non riusci a scorgervi alcun anfratto. Scese nuotando fino alla sua base.
Risalì varie volte, si riempi d'aria i polmoni, e tornò giù. Ripetutamente tastò la superficie della roccia, frugandola, quasi abbracciandola nel disperato bisogno di trovare l'entrata. Poi, finalmente, mentre si aggrappava alla parete nera, alzò le ginocchia e spinse i piedi in avanti, e i piedi non incontrarono alcun ostacolo. Aveva trovato l'apertura.Guadagnò la superficie, si arrampicò sulla barriera di roccia, frugò tra le pietre che la ingombravano finché ne trovò una abbastanza grossa e, con questa tra le braccia, si lasciò cadere dal ciglio della roccia. Calò, trascinato dal peso, dritto sul fondo sabbioso. Tenendosi attaccato all'àncora di pietra, si sdraiò sul fianco e scrutò sotto la buia sporgenza, nel posto in cui aveva infilato i piedi. Riuscì a scorgere la fessura. Era un'apertura irregolare, buia, ma non riuscì a spingervi lo sguardo in profondità. Lasciò andare l'àncora, s'attaccò con le mani all'orlo della fessura, e cercò di cacciarsi dentro. Infilò la testa, si trovò con le spalle incastrate, le mise di sbieco, e fu dentro fino alla vita. Piú in là non riusciva a veder nulla. Gli sfiorò la bocca qualcosa di molle e vischioso, vide un'alga scura che ondeggiava contro la roccia grigiastra, e fu preso dal panico. Pensò ai polipi, alle piante strangolatrici. Rinculando, si spinse fuori e intravide, mentre si ritirava, un innocuo tentacolo d'alga marina che si lasciava portare dalla corrente verso la bocca della galleria. Ma bastò. Raggiunse la luce del sole, nuotò fino a riva, e si distese sulla roccia ch'era servita da trampolino. Abbassò lo sguardo sull'azzurra conca d'acqua. Sapeva di doversi aprire la strada attraverso quella caverna, o buco, o galleria, e sbucar fuori dall'altra parte. Innanzitutto, pensò, doveva imparare a controllare la respirazione. Si lasciò cadere nell'acqua con un'altra grossa pietra tra le braccia, in modo da potersi distendere senza fatica sul fondo del mare. Contò. Uno, due tre. Contava con regolarità. Sentiva il sangue pulsargli in petto. Cinquantuno, cinquantadue... Il petto gli doleva. Mollò la pietra e sali alla superficie. Vide che il sole era basso. Corse alla villa e trovò sua madre a tavola per la cena. Gli chiese soltanto: "Ti sei divertito?" e lui rispose: "Sì." Per tutta la notte il ragazzo sognò la cavità piena d'acqua nella roccia, e subito dopo colazione andò alla baia. Quella sera cominciò a colargli il sangue dal naso. Ore ed ore era rimasto sottacqua, per imparare a trattenere il respiro, e adesso si sentiva debole e stordito. Sua madre disse: "Al tuo posto non esagererei, caro." Quel giorno, e il giorno dopo ancora, Jerry esercitò i suoi polmoni come se tutto, la vita intera e l'avvenire, dipendesse da quel tentativo. La sera il sangue gli colò di nuovo dal naso, e sua madre insisté perché il giorno dopo andasse con lei. Per Jerry fu un tormento sprecare una giornata del suo minuzioso allenamento, ma restò con lei su quell'altra spiaggia, che ora pareva un posto adatto ai bambini piccoli, un posto dove sua madre poteva starsene distesa al sole, al sicuro. Non era la sua spiaggia. Il giorno dopo non chiese il permesso di andare alla sua spiaggia. Ci andò, prima che sua madre potesse valutare i pro e i contro della faccenda. Scoprì che un giorno di riposo aveva aumentato il suo conto di dieci. I ragazzi grandi avevano compiuto la traversata mentre lui contava fino a centosessanta. Aveva contato in fretta, per la paura. Se tentava, adesso forse ce l'avrebbe fatta ad attraversare quella lunga galleria, ma non voleva provare ancora. Una perseveranza, insolita e per niente infantile, un'impazienza controllata, lo inducevano ad attendere. Nel frattempo, si stendeva sottacqua sulla sabbia bianca, adesso ingombra delle pietre che aveva portato giù dall'aria aperta, e studiava l'entrata della galleria. Ne conosceva ogni angolo ed ogni sporgenza, fin dove l'occhio arrivava. Era come se già si sentisse attorno alle spalle le sue asperità. Alla villa, sedette accanto all'orologio, in un momento in cui sua madre non c'era, e controllò il tempo. Con incredulità, e quindi con orgoglio, constatò che riusciva a trattenere il respiro senza sforzo per due minuti. Le parole "due minuti," autorizzate dall'orologio, resero più vicina l'avventura che gli era tanto necessaria. Di lí a quattro giorni, disse con noncuranza sua madre una mattina, sarebbero dovuti tornare a casa. Decise allora di fare il tentativo il giorno prima della partenza. L'avrebbe fatto anche a rischio della vita, si disse, in atto di sfida. Ma due giorni prima della partenza, un giorno trionfale in cui aumentò di quindici il suo conto, gli colò tanto sangue dal naso che si sentì venir meno e dovette stendersi sulla grande roccia snervato come una foglia d'alga, a osservare il sangue rosso e denso che gocciolava sulla roccia e colava lentamente in mare. Era spaventato. E se fosse svenuto nella galleria? Se fosse morto là sono, in trappola? Se... gli girava la testa, nel sole caldo, e quasi s'arrese. Pensò di ritornare alla villa per coricarsi: l'estate prossima, forse, più grande di un anno, allora avrebbe attraversato la breccia. Ma subito dopo aver preso questa decisione, o pensato di averla presa, si trovò seduto sulla roccia a guardar giù nell'acqua, e capì che allora, in quel momento, col naso che aveva appena smesso di sanguinargli e la testa che ancora gli doleva e batteva... quello era il momento di tentare. Se non lo faceva ora, non l'avrebbe fatto piú. Tremò all'idea di non avere il coraggio di avventurarsi, e tremava per il terrore di quell'interminabile galleria sotto la roccia, sotto il mare. Nell'aperta luce del sole, la barriera di roccia pareva ancora più larga e pesante; tonnellate di roccia che premevano sul luogo dove doveva andare lui. Se fosse morto lì sotto, sarebbe rimasto nella galleria finché un giorno — forse non prima dell'anno seguente — quei ragazzi grandi vi sarebbero penetrati a nuoto e l'avrebbero trovata ostruita. S'infilò la maschera, la strinse, provò il tubo. Gli tremavano le mani. Poi scelse la pietra più grossa che poteva trasportare e si lasciò scivolare oltre il ciglio della roccia, finché fu per metà nell'acqua fresca che lo avvolgeva da ogni parte, e per metà nel sole caldo. Guardò un attimo in alto, verso il cielo vuoto, si riempì i polmoni una volta, due volte, poi andò rapidamente a fondo con la pietra. La lasciò andare e cominciò a contare. S'attaccò con le mani agli orli dell'anfratto e si spinse dentro, con le spalle di traverso, come ricordava di dover fare, facendo leva con i piedi Presto fu dentro con tutto il corpo. Era una piccola apertura nella roccia, piena d'acqua grigio giallognola. L'acqua lo spingeva in alto contro il soffitto. La volta era scabra e gli pungeva la schiena. Si tirò avanti con le mani – in fretta, in fretta – e usò le gambe come leve. Picchiò la testa contro qualcosa; un dolore acuto lo stordì. Cinquanta, cinquantuno, cinquantadue... Era senza luce, e l'acqua pareva schiacciarlo con il peso della roccia. Settantuno, settantadue... Non c'era sforzo nei suoi polmoni. Si sentiva come un pallone gonfio, i polmoni erano leggeri e distesi, ma la testa gli ronzava. Veniva sospinto di continuo contro la volta aguzza, per giunta anche viscida. Gli tornarono in mente i polipi, e si chiese se la galleria non poteva esser piena di piante marine capaci d'intrappolarlo. Con un calcio si diede una spinta in avanti, convulsa e terrorizzata, abbassò la testa, e nuotò. Piedi e mani si muovevano liberamente, come nel mare aperto. La cavità doveva essersi allargata. Capì che bisognava nuotare in fretta, ma aveva paura di sbattere la testa se la galleria si restringeva. Cento, centouno... L'acqua si fece chiara. Lo colmò un senso di vittoria. Cominciavano a dolergli i polmoni. Ancora poche bracciate, e sarebbe stato fuori. Contava selvaggiamente; disse centoquindici, poi, molto tempo dopo, ancora centoquindici. Intorno a lui l'acqua era d'un chiaro verde smeraldo. Quindi vide, sopra la testa, una spaccatura che saliva attraverso la roccia. La luce del sole vi cadeva dentro, rivelando la scura roccia pulita della galleria, una conchiglia e, più avanti, la tenebra. Era allo stremo delle forze. Guardò in alto, verso la fenditura, come se fosse piena d'aria e non d'acqua, come se potesse accostarvi la bocca per aspirare aria. Centoquindici, udì se stesso dire dentro la sua testa... ma l'aveva detto tanto tempo fa. Doveva farsi strada nella tenebra che gli stava davanti, altrimenti sarebbe annegato. La testa gli scoppiava, gli si spaccavano i polmoni. Centoquindici, centoquindici, gli martellava nella testa; e debolmente s'affrettò alle rocce, nell'oscurità, tirandosi avanti, lasciandosi alle spalle il breve tratto d'acqua illuminata dal sole. Sentì che stava per morire. Stava piombando in uno stato di incoscienza. Continuò a lottare nel buio, fra intervalli di svenimento. Un dolore immenso, crescente, gli empiva la testa; poi l'oscurità si spezzò con un'esplosione di luce verde. Le sue mani, brancolando in avanti, non incontrarono nulla, e i piedi, scalciando, lo proiettarono fuori, nel mare aperto. Si lasciò portare alla superficie, il viso teso in alto, verso l'aria. Boccheggiava come un pesce. Sentì che adesso sarebbe andato a fondo e sarebbe annegato; non aveva la forza di coprire a nuoto i pochi metri che lo separavano dallo scoglio. Ma vi si era già abbarbicato, e vi si stava issando. Giacque a faccia in giù, respirando affannosamente. Non riusciva a vedere altro che un buio venato di rosso, coagulato. Pensò che gli occhi dovevano essergli scoppiati; erano pieni di sangue. Si strappò la maschera e uno spruzzo di sangue calò in mare. Il naso gli sanguinava, e il sangue aveva riempito la maschera. A mani giunte raccolse manate d'acqua dal mare freddo e salato, se la buttò sul viso, e non sapeva se quello di cui sentiva il sapore era sangue oppure acqua salata. Dopo un po' il suo cuore si calmò, gli occhi gli si schiarirono, e si rizzò a sedere. Riuscì a scorgere i ragazzi del posto che si tuffavano e giocavano tra loro a circa ottocento metri di distanza. Non li voleva. Non desiderava altro che tornare a casa per buttarsi sul letto. Di lí a poco Jerry tornò a riva a nuoto e si inerpicò lentamente su per il sentiero, fino alla villa. Si gettò sul letto e dormì, destandosi al rumore di passi sul sentiero. Sua madre era di ritorno. Corse nella stanza da bagno, pensando che lei non doveva vedergli il viso con le macchie di sangue, o i segni delle lacrime. Uscì dalla stanza da bagno e la incontrò mentre entrava nella villa, sorridente, con gli occhi accesi. "Hai passato una bella mattinata?" domandò, posandogli per un attimo la mano sulla spalla calda e bruna. "Oh, sí, grazie," disse lui. "Sembri un po' pallido." E poi, lucida ed ansiosa: "Come hai fatto a picchiare la testa?" "Oh, l'ho picchiata," rispose. Lo guardò da vicino. Era affaticato, aveva gli occhi vitrei. Si preoccupò. Poi si disse: "Non agitarti per nulla! Non gli può accadere niente. Nuota come un pesce." Andarono a pranzo, insieme. "Mamma," disse lui, "riesco a stare sottacqua per due minuti... tre minuti, almeno." Dovette dirlo, altrimenti scoppiava. "Davvero, caro?" disse lei. "Be', io non esagererei. Credo che dovresti smettere di nuotare, per oggi." Era pronta a una discussione, ma lui si diede subito per vinto. Andare alla baia non aveva più la minima importanza.
(B. Lessing, Sottacqua, in L'abitudine di amare)