"M'illumino di… testo"

di T. Gargano

Attività 0 - Fase 2

Michele Mari

Uno scrittore contemporaneo, Michele Mari (1955), ha provato, con un racconto, a immaginare il processo creativo che condusse, per prove successive di scrittura e riscrittura, il poeta (classico) Cecco Angiolieri (1260 circa - 1312) dalla prima stesura alla forma definitiva del (notissimo) sonetto S’i’ fosse foco, così come noi oggi lo leggiamo. Ecco il testo del racconto di Mari, Cecco mette a punto il suo furore:

 

Il dì 20 di maggio dell’anno 1306, nella città di Siena, in una taverna poco discosta dalla Porta dell’Assunta, i due illustri poeti Folgore da San Gimignano1 e Cecco Angiolieri questionavano amabilmente.
«Ho qui un sonettuccio», disse Folgore, «inteso a laude dell’ozio campestre, e de’ più fantastici sogni che nel primo meriggio allietano la nostra mente, quando tutto il creato sembra posare in vaghissima quiete, e solo s’ascolta l’ipnotica nota della cicala, lontano …»
«Uhm …», bofonchiò Cecco, cui ogni manifestazione di gaudio suonava importuna.
Folgore guardò trasognato il rosso rubino del Chianti che scintillava nel suo bicchiere, di poi seguitò: «E ha rime, lo sonettuccio meo, in ondo e in ei ne la fronte, in adre e in ui ne la sirma».
«E adunque?», domandò Cecco in tono d’uomo inquieto.
«E adunque, risapendosi la vostra cupezza, sarebbe cosa dovuta se vi degnaste rispondermi per le rime».
Era Folgore uomo piacevole e d’arguto parlare, ma pur sempre rimatore: e a rimatore, Cecco il sapea, non puossi rifiutare disfida. Così, suo malgrado, l’Angiolieri accettò, impromettendo fornir la risposta entro il giorno vegnente.
Quella sera, al suo scrittoio, Cecco mise su pergamena un sonetto secondo le rime proposte. Composelo in modo meccanico, dalla prima all’ultima parola senza esitazione veruna2. Poi lo rilesse.

 

È duro a sostener lo grave pondo
de’ dolorosi lunghi giorni miei
e del rimpianto crudo di colei
che sola fummi luce in esto mondo.

 

Omè ch’io vivo e che vivendo affondo
nel tetro vaneggiar de’ tempi rei,
e requie al mio penar non trovarei
nemmen se ‘l quadro proveriasi tondo.

 

 

Furan lo tempo l’ore preste e ladre
e sibilando van ne’ cieli bui
de’ diavoli in legion le triste squadre.

 

Altro non resta ad impetrare a nui
che chiedere a Colui ch’a tutti è padre
di poter dire in exitu: io fui.

 

 

«Ma cosa ho fatto?», si chiese. «Se Guido o Dante udisser mai la trista rima mia, deh le gran beffe ne fariano per Toscana tutta! Affè3 che nemmanco il rustico Guittone4 dittò mai sonetto sì legnoso, né scialbo Bonagiunta, né sì ristucco5 il siculo Notaro6». Ciò rivoluto in suo cerebro aspro, diè morte al responsivo gittando il lembo d’agnellin7 nel foco. Bevve dell’Orvietan da una fiaschetta sua, poi riposò lo stilo sul verso d’un documento antico, e scrisse:

 

 

Fuggo dal giorno et ho a fastidio’l mondo
e co’ cristiani ho guerra e co’ giudei,
e non c’è uom che non occidarei
poiché pietade al core mio nascondo.

 

Cibo non havvi ch’io non trovi immondo
Et anco ‘l canto aborro de gli augei,
e fin l’ambrosia che delizia i dèi
saríami un puzzo e un vomitar profondo.

 

Disnor mi face ‘l nome di mi’ padre,
così come vergogna i’ sono a lui:
il simile dirovvi de mi’ madre.

 

S’i’ fosse altro da chi sono e fui
le rime mie sarebbero leggiadre:
ma i’ son io, e vui restate vui.

 

Sì, poteva andar bene, il tuono di biastema8 e l’amertume9 erano bene i suoi, ma… ma il terzo verso, il terzo verso parea d’uno scolare, e il settimo sapea d’imparaticcio, meglio salvar qualcosa da la sirma10 e ripigliare il tutto. Così ribevve, e passeggiò implacato, e l’animo scaldossi, e allora che in furore si corruppe dittò il sonetto che principia S’i’ fosse foco, e ch’a confusion di Folgore in sempiterno suona a scorno11 de lo mondo:

 

S’i’ fosse foco, arderei lo mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempesterei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, manderell’en profondo.

 

S’i’ fosse papa, sare’ allor giocondo,
ché tutti li cristiani imbragherei;
s’i’ foss’imperator, sa’ che farei?
A tutti mozzarei lo capo a tondo.

 

S’i’ fosse morte, anderei da mi’ padre,
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui;
similemente faria da mi’ madre.

 

S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre,
e vecchie e laide lasserei altrui.

 

[Mari, M. Fantasmagonia. Einaudi, Torino 2012, pp. 37-9].

Quasi per gioco, Michele Mari, in questo racconto, ricostruisce i momenti salienti del ‘furore’ creativo che, secondo la sua fantasia, caratterizzarono la nascita (per prove successive, quasi un processo di avvicinamento) del sonetto più celebre di Cecco Angiolieri.

Da notare, nel racconto di Mari, lo sforzo dello scrittore contemporaneo di ricreare da un punto di vista linguistico, sia pure in modo leggero e nient’affatto pesante, andamento ritmico, sintassi e lessico della lingua del Trecento, cioè del secolo di Cecco Angiolieri. Questo gioco linguistico è evidente nell’utilizzo di determinati vocaboli (quistionavano, laude, meo, sapea; veruna; Affè; nemmanco; dittò; ristucco; biastema; amertume; sempiterno; scorno); di alcuni modi di dire / espressioni (“uomo piacevole e d’arguto parlare”; “non puossi”; “giorno vegnente”; “trista rima”; “deh le gran beffe ne fariano”; “diè morte”; “che principia”); di alcune forme sintattiche (“Composelo”; “erano bene i suoi”; “scaldossi”).

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1. Poeta italiano (1270-1332), elegante cantore della ricca borghesia cittadina.
2. Alcuna.
3. In fede, in verità.
4. Guittone d'Arezzo (1235 circa - 1294), poeta e religioso italiano.
5. Nauseante.
6. Il riferimento è a Jacopo (o Giacomo) da Lentini (1210 circa – 1260 circa), poeta e notaio italiano (esponente di primo piano della così detta scuola siciliana, che fiorì presso la corte itinerante di Federico II), considerato l'inventore del "sonetto".
7. La pergamena, supporto scrittorio sul quale Cecco aveva vergato la prima stesura del suo (futuro) sonetto S'i' fosse foco.
8. Bestemmia.
9. Asprezza, amarezza.
10. Sirima, seconda parte del sonetto (costituita dalla due terzine).
11. Umiliazione.